Poco meno di un anno dalla scomparsa ed Heath Ledger è già mito. Dal quel giorno in cui il suo corpo 28enne e senza vita fu trovato nel loft di Soko (il quartiere newyorkese scelto dall’attore australiano per fuggire agli eccessi dei fan) sono piovuti su di lui riconoscimenti e dichiarazioni al merito. Non solo da parte degli addetti ai lavori, che dopo il premio dell’Australian Film Institute ed il “Critic’s Choice”, gli hanno consegnato il “Golden Globe” come miglior attore non protagonista per il ruolo di Jocker ne “Il cavaliere Oscuro” (Christopher Nolan, ‘08). Ma anche, e soprattutto, da parte di quel pubblico internazionale senza il quale nessuna stella potrebbe illuminare ad anni luce di distanza. E il suo pubblico ha deciso. Attraverso i sondaggi di “Ciak” fa sapere che lo preferisce a tutti gli altri, sfonda i botteghini di “The dark knight”, divora le sue due biografie (“Hollywood’s dark star” di Brian J. Robb e “His beautiful life and mysterious death” di John McShane sono ormai bestseller), fino a regalargli il proprio premio, il “People’s Choice Award”.
Golden Globe strameritato dunque, che lo vede sbaragliare mostri sacri come Tom Cruise, Robert Downey Jr., Ralph Fiennes e Philip Seymour Hoffman anche loro in lizza per il premio, ritirato per lui dal regista Christopher Nolan, che lo ha diretto nei panni di Jocker. E quel ruolo gotico, sibillino come fu per Brandon Lee quello del corvo (“The Crow“, ’94) non smette di elargirgli onori e glorie. Sarà per l’“effetto morte”, che esalta il carattere dark di un’interpretazione già di per sé efficace, o per coraggio e talento necessari a sostenere una parte su cui pesa l’inevitabile paragone con Jack Nicholson. Fatto sta che il perfido mostro dal volto deturpato rischia di valergli nientedimeno che un Oscar post-mortem. Il premio più ambito che, prima di lui, ha coronato i sogni d’altri australiani con Hollywood nel cassetto, Nicole Kidman, Russel Crowe, Naomi Watts (sua invidiata ex) e Mel Gibson, collega e mentore ne “Il patriota” (Roland Emmerich, ’00 ).
La punta di diamante per una carriera combattuta, sofferta, stroncata proprio quando il futuro tra gli astri della settima arte sembrava ormai assicurato. L’ultima ‘parola’ sul percorso travagliato di un giovanotto emotivo ed irrequieto, costretto ai medicinali per assicurarsi un paio d’ore di sonno senza l’incubo della ‘parte’. Quei tranquillanti mischiati a sonnifero che, il 22 gennaio dell’anno scorso, gli costavano l’overdose letale. Un epilogo tragico, a conferma del fatto che avere coraggio non significa essere immuni alla paura ma da questa non lasciarsi influenzare. E di coraggio e tenacia Heath ne aveva da vendere. Basti pensare a quel ruolo scomodo con cui, ne “I segreti di Brokeback Mountain” (Ang Lee, ‘05), rompeva il tabù dell’omosessualità maschile sul grande schermo. Una scelta per la quale rinunciava tra l’altro al successo sicuro ma più commerciale di “Spider man 2” (Sam Raimi ’04). Ma se è vero che la fortuna premia gli audaci, come quell’interpretazione meritevole di una prima nomination, altrettanto proverbiale è la capacità di questa di voltare faccia.
Così il ragazzo di Perth, che rinuncia ai riccioli d’oro per inforcare il ghigno di Jocker, è ormai parte della storia. O della favola (dipenderà dal finale) a cui amici e colleghi vogliono dare un meritato happy and chiedendo ufficialmente all’Accademy di consegnare alla memoria di Heath l’Oscar dei sogni. E nomination sia. Come per James Dean, a cui Ledger è spesso paragonato, che ricevette due candidature appena scomparso (“La valle dell’Eden”, 1955, ed “Il gigante”, 1956).
Ma come fu per quel divo anni 50, morto sull’asfalto californiano alla guida della sua Porche “Little bastard”, così sul mito di Hedger vien da chiedersi se pesa di più l’innegabile talento espresso in vita o l’essere l’ultimo ‘nomitato’ a lettere d’oro nelle fila della stessa gioventù bruciata…