Una carriera che dura da più di 40 anni, iniziata tra gli hotel della costa dalmata e i locali porno della Jugoslavia comunista e che oggi conta decine di album, centinaia di concerti ed una lunga serie di colonne sonore testimoni della sua passione per il cinema. Un incontro, quello tra Goran e le note, avvenuto “in chiave di violino”, lo strumento che suo padre gli mette in mano fin da bambino, sognando per lui un glorioso percorso accademico.
Ma il giovane Bregovic ha altri piani, impugnare la chitarra elettrica e interpretare, con il rock, sogni e ideali di un popolo diviso, diventando punto di riferimento della generazione che tra i 70 e gli 80 viveva i propri anni d’oro. Un compito scritto nel suo DNA, figlio di madre serba e padre croato, che serpeggia tra le note dei Bijelo Dugme, la band con cui ai tempi ‘sfornò’ 13 dischi vendendo 6 milioni di copie.
Questo, il preludio. L’epoca verde, prima della maturità umana e professionale, che lo avrebbe visto assumere il carattere di “nomade post moderno” noto al gran pubblico. Lasciata Sarajevo negli anni 90 per recarsi a Parigi, comincia a girare il mondo intrecciando le esperienze di vita allo sviluppo di uno stile inconfondibile che s’ispessisce al contatto con le altre culture. Ma è con il cinema che il suo nome avrebbe fatto il giro del mondo legandosi a quello dell’amico regista Emir Kusturica, suo connazionale, che gli affida la colonna sonora de “Il tempo dei gitani” (1989) e “Arizona dream” (1992). Brani fumosi e immaginifici, portatori di uno spirito popolare reinterpretato in chiave goliardica e stonata, fanno impazzire la nuova generazione.
Ma il sodalizio con la ‘settima arte’ per un decennio sembra averlo strappato dal palco per gettarlo negli studi di registrazione, sottraendolo al contatto diretto col pubblico. L’assenza dura solo un lungo momento, presto sarebbero ricominciati i concerti (culminati nel 2005 a Zagabria, Sarajevo e Belgrado quando riunendo i Dugme leccava le ferite di un popolo straziato dai conflitti) e le registrazioni live annaffiate dall’alcol, come quella del suo ultimo disco, intitolato – appunto – “Alkohol”, in uscita questo inverno.
Tornano gli ottoni della Wedding e funeral band, melodicamente folk e sapientemente sposati a chitarra e percussioni rock. Torna l’immaginazione, la polifonia e l’ottimismo venato di follia nella miglior tradizione musicale balcanica. La prima parte, “Rakija” (dal nome della bevanda nazionale a base di prugne), registrata live in occasione del festival di Guca (cittadina serba che ogni estate accoglie 150mila visitatori attratti dalla musica locale) ha il sapore genuino dei crauti e delle grigliate alla brace. La seconda, “Champagne”, è incisa dal vivo tra Francia, Italia e Belgrado, a testimonianza di un peregrinare incessante sempre memore delle proprie origini. Come se il significato della parola “casa” non fosse un luogo concreto, ma un senso interiore che accompagna l’artista nel suo girovagare.