Il dato, quello principale, è sotto gli occhi di tutti. Dopo che la stampa ha speso fiumi di inchiostro per raccontare Fabiola Gianotti, futura direttrice del CERN di Ginevra e seguito con passione i tweet di Samantha Cristoforetti dallo spazio, appare chiaro come oggi le figure femminili in campo scientifico siano in grado di suscitare un incredibile interesse collettivo.
Eppure, nonostante la popolarità mediatica intermittente, le donne scienziate faticano a trovare una propria voce autentica. Da un lato, c’è il ritratto vittimistico che ne danno politica e media, dall’altro, pur esistendo un’azione positiva prodotta dalla comunità scientifica, essa non è quasi mai in grado di superare la dura soglia dell’opinione pubblica. Il risultato, è che le ricercatrici italiane, nonostante i meriti, sono spesso poco visibili e che di riflesso l’intera professione soffra di una scarsa considerazione sociale.
E allora, per rispondere a questioni come parità di genere in campo scientifico e cercando di capire se e quali siano gli ostacoli che limitano l’accesso delle donne alla categoria, siamo andati all’Università La Sapienza di Roma, presso il Dipartimento di Biologia e Biotecnologie Charles Darwin.
Qui, un team di biologi molecolari, diretto dalla Professoressa Irene Bozzoni e che ha al proprio interno un ampio ventaglio di figure femminili, dai profili poco più che ventenni agli over 50, si occupa da tempo di capire i meccanismi molecolari che regolano processi importanti per la crescita e il differenziamento cellulare. Come ci racconta la Professoressa, l’argomento centrale di queste ricerche, che interessa per esempio patologie come la distrofia di Duchenne, è quello di comprendere come tali meccanismi siano deregolati in condizioni patologiche. Un lavoro fondamentale che apre la strada all’ideazione di strategie che ne possano permettere la “cura”.
Si parte quindi dalla fotografia della professione secondo le statistiche ufficiali. Per Women in Science, il rapporto elaborato nel 2012 dall’UIS (Unesco Institute for Statistics), la percentuale delle ricercatrici italiane si attesta intorno al 35%. Un numero, che nonostante documenti una presenza maggiore delle donne durante gli anni della laurea, il 58% contro il 42%, crolla considerevolmente al 35% negli anni successivi al dottorato di ricerca. É il cosiddetto “tubo che perde”, un meccanismo negativo che ridurrebbe la presenza delle donne con l’avanzare della carriera professionale.
“Qualche volta – ci spiega uno dei profili più avanzati del gruppo – è più duro arrivare in certi ruoli perché c’è la tendenza a essere giudicate da gruppi di maschi. E non c’è mai stato a oggi un rettore donna.”. Per qualcun altro, rientrato dopo un’esperienza in Francia, la percentuale è in linea con ciò che avviene per le donne in altri campi: “Tutto ciò è molto simile a quello che accade in altre professioni, però nella scienza è meno evidente. Oggi è importante il curriculum e nella mia esperienza non ho mai vissuto discriminazioni in base al genere. Poi è vero che esistono difficoltà maggiori per le donne. In Italia per esempio è ancora la famiglia che aiuta, e non il sistema di welfare universitario. Faccio un esempio. Quando sono stata all’estero, sono partita con mio marito e un figlio sapendo solo l’indirizzo del posto dove sarei andata a lavorare. Dopo la prima settimana, ho firmato il contratto, aperto il conto in banca, trovato un posto in asilo internazionale e nel giro di una decina giorni mi sono integrata a livello di strutture e servizi. Poi però ho deciso di tornare. Oggi lavoro in un gruppo che vale, ho pubblicato bene, mio figlio cresce bilingue, e nonostante tutte le difficoltà torno in un posto che merita e mi merita. E posso fare il mestiere che voglio.”.
E per quanto concerne invece le famigerate discriminazioni sul lavoro? “Non ho mai subito discriminazioni in quanto donna – svela un altro membro del team – piuttosto mi è capitato per una questione gerarchica. Però l’essere donna in sé non mi ha mai dato difficoltà.”.
Malgrado l’assenza di pregiudizi, chi decide invece di avere dei figli si trova davanti alla complessità di gestione della famiglia e del lavoro. Tuttavia per tutte si tratta di un’esperienza che incide positivamente sulla professione. “Secondo me la famiglia è un valore aggiunto sul lavoro – ci dicono – anche se le scelte individuali vanno rispettate”, oppure: “La donna con una famiglia, è felice anche fuori e questo aiuta a vivere gli stress con maggiore forza.”.
In questo senso il welfare universitario non sembra riuscire a rispondere alle esigenze più organiche e ampie delle proprie lavoratrici: “Io avrei la qualifica necessaria per fare la richiesta del nido – dichiara una giovane mamma del gruppo – poi però subentrano altri problemi. Per esempio quello degli orari, io esco tardi e allora la comodità è maggiore avendolo vicino casa”.
Altro tema che merita una certa attenzione, è quello riguardante la formazione cosiddetta “neutra”. Se è vero che i libri di testo veicolerebbero alcuni stereotipi sessisti, è anche reale la possibilità da parte del corpo docente di trasmettere e suscitare interesse aldilà dei modelli cristallizzati: “Ho iniziato a interessarmi di biologia al liceo – racconta una delle ragazze più giovani, – avevo un professore molto bravo e molto appassionato, anche se dall’altra parte viveva la frustrazione di voler aspirare a una carriera maggiore.”. Oppure, in un altro caso, l’ispirazione arriva direttamente dalla famiglia: “La spinta è nata dalla storia personale. Mia nonna si è laureata nel ‘45, una cosa atipica per l’epoca e in più proprio in medicina. Sono cresciuta con questa idea.”.
I modelli su carta sembrano quindi avere poca influenza in Italia come fuori dal paese. Lo racconta persino una giovane scienziata proveniente dal Medio Oriente: “Sono stata mossa da curiosità personale e anche nel mio paese esistono modelli vincenti ai quali ispirarsi. Un esempio? Anousheh Ansari, la prima donna musulmana ad aver viaggiato nello spazio.”.
É infine interessante interrogarsi sulla percezione interna in tema di parità di genere e di empowerment al femminile: “C’è molta attenzione, eppure io non ho avuto questo tipo di esperienza. Fa piacere se è una donna a fare carriera, ed è l’esempio e la dimostrazione che si può fare.”. Stesso discorso per chi invece sta frequentando un dottorato di ricerca: “Non mi sono mai sentita trattata diversamente dagli uomini e in campo lavorativo, non ho mai avuto questa sensazione. Nei concorsi pubblici si è poi assolutamente anonimi.”.
E mentre l’intervista volge al termine, pur consapevole che una realtà come questa non possa costituire un dato valido in una prospettiva più unificata, è piacevole per una volta godersi il lusso di cambiare opinione e riscoprire come, almeno in questo caso, sia il talento a costituire il vero fattore discriminante.