Un ritratto umano e artistico della regista che ha scelto di narrare lo stupro brutale di New Delhi nel docu-film India’s Daughter
Leslee Udwin, quasi sessant’anni, rappresenta un megafono raffinato e potente per il pensiero femminile e femminista. Quello più libero, anti-sessista, desideroso di trovare una propria dimensione all’interno dello spazio pubblico e alla ricerca perenne di una parità dei
diritti che sia il più possibile globale e onnicomprensiva. Ma la regista di origini israeliane, cresciuta nella multietnica
Londra, oltre a ciò, si carica sulle spalle un compito in più. Una missione di quelle difficili, stancanti eppure coraggiose, perché in grado di guardare al dolore e alla violenza senza l’alibi della fragilità personale. Leslee Udwin, è infatti la regista dell’intenso India’s Daughter, il documentario prodotto dalla
BBC, in Italia sarà distribuito a giugno da
Berta Films, e censurato in India, che racconta il brutale stupro di
Jyoti Singh, la ventitrenne di Nuova Delhi che nel 2012 fu violentata su un autobus e massacrata di botte fino alla morte.
Ma cosa spinge una
donna, o un’artista a voler indagare il peggiore dei crimini, quello della violenza su base di genere e come si inserisce il lavoro di India’s Daughter nel percorso della filmmaker britannica? Alla prima domanda si potrebbe rispondere mettendo in luce la scelta di molte attiviste, o personalità politiche femminili, che da anni si impegnano in prima persona per legare la propria condizione di donna a quella di tutte le altre donne nel mondo, a prescindere dal luogo e dalla cultura nella quale sono immerse.
Ma oltre a questa battaglia personale, che assume il suo senso più grande solo se vissuta su larga scala, la regista britannica aggiunge un carico di vissuto privato che rende il suo impegno nel campo dei diritti civili, una vera e propria forma di sopravvivenza e di catarsi continua. Leslee Udwin, ha infatti vissuto la violenza sulle donne in prima persona, quando a soli diciotto anni fu violentata da uno sconosciuto durante un soggiorno in Sud Africa.
Malgrado ciò, ci sono voluti molti anni, per decidere di guardare la violenza in faccia, di spingersi fino a osservare da vicino il volto della violenza, che nel caso di Jyoti Singh, è incarnata da Mukesh Singh, il giudatore dell’autobus maledetto, oggi in carcere con un’accusa di omicidio di primo grado. La Udwin lo intervista e nel docu-film sia la regista in prima persona, sia lo spettatore, lo ascoltano pronunciare il mantra espiatorio di ogni cultura maschilista, accusatoria nei confronti della donna, della sua libertà di scelta. “La femmina è sempre più responsabile di un maschio per la violenza sessuale. Le donne per bene non se ne vanno in giro da sole a quell’ora”.
Ritornando invece alla seconda delle domande, ovvero come India’s Daughter si inserisca nel corpus artistico di Leslie Udwin, bisogna pensare come l’attivista britannica abbia scelto il mezzo cinematografico per raccontare una società dove le differenze di genere, di etnia e di pensiero possano convivere senza traccia di violenza. In
East is East, pellicola del 1999 dove la Udwin assumeva il ruolo di produttrice, veniva raccontato il conflitto tra vecchie generazioni di migranti pachistani e quelle di seconda ondata, legate invece al paese di arrivo, in questo caso la
Gran Bretagna, e dove l’elemento di fusione culturale e di tolleranza verso il diverso emergeva con forza ed ironia.
Anche nel sequel del film, West is West, la prospettiva antropologica è predominante, e l’interesse della regista nei confronti dell’esplorazione del melting pot tra Oriente e Occidente, è palese nei toni irriverenti ma puntuali della pellicola. India’s Daughter quindi, può sembrare il naturale proseguimento del lavoro di una regista appassionata di diritti civili, con la missione dell’integrazione, che in questo ultimo lavoro più che mai, afferma con convinzione che siamo tutte figlie dell’India, e per questo, non è possibile rimanere indifferenti di fronte alla tragedia di Jyoti Singh.