Dapprima era un libro, poi uno spettacolo teatrale, e infine è diventato un film (con la sceneggiatura dello stesso Celestini, di Ugo Chiti e di Wilma Labate). Si vede che Ascanio Celestini ci teneva davvero a parlare dei suoi matti, delle loro stralunate avventure, del loro mondo vissuto come dentro un acquario. La pecora nera, dopo il successo vissuto al Festival del Cinema di Venezia, sta per arrivare nelle sale – il primo ottobre, con BIM Distribuzione – e il suo successo di pubblico è tutto da vedere.
Perché, si sa, Celestini parla ad un pubblico ristretto. Infatti, nonostante il suo ingresso in televisione, è da sempre legato al teatro e ad una nicchia culturale. Ma la sua prima opera di finzione cinematografica è vera poesia. La storia ha forse un filo logico narrativo poco consistente, ma è più la descrizione di una realtà che un film dalla trama classica. Il protagonista, Nicola (Ascanio Celestini) ha 35 anni e ha vissuto tutta la vita in manicomio: accanto a lui personaggi reali e di fantasia e, soprattutto, i ricordi della sua infanzia, la crudeltà e l’ingenuità di quegli anni, l’abbandono da parte della famiglia e la progressiva perdita di lucidità.
L’attore regista è perfetto nel ruolo, surreale e malinconico, e regala momenti di grande emozione. Accanto a lui, un attore versatile come Giorgio Tirabassi e una Maya Sansa ancora più naturale del solito, ma anche l’infermiere Adriano Pallotta (che interpreta il Professore), che ha “svelato” a Celestini i misteri dei manicomi, e Alberto Paolini, che nelle “case dei matti” ci ha vissuto una vita intera. Un’eco di Pasolini si avverte sui volti di questi attori non attori che costellano il film.
Le pecche che si possono rilevare nell’impianto drammatico, vengono compensate dalla bella fotografia di Daniele Ciprì, che sa rendere alla perfezione i due livelli della pellicola, quella del ricordo e quella contemporanea, grazia ad una luce morbida che rende più intense le cose.
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