La sua avventura comincia 9 anni fa, come protesta al sindaco Rudolph Giuliani che voleva creare un’altra discarica pubblica, facilitando l’ingresso nel Bronx di quel 40% di rifiuti solidi provenienti dalla vicina Manhattan. Stufa di essere la ‘latrina dei ricchi’, la sacca più povera di New-York, capitanata dall’allora trentenne Majora Carter, riuscì a bloccare i lavori ottenendo invece un’area verde a bordo fiume. Da questo primo, piccolo, germe di vittoria, nasceva il progetto che l’ha resa famosa come una delle afro-americane più influenti del mondo il “Sustainable South Bronx”, basato sull’equazione ambientalismo = impegno sociale.
Concetto tanto banale, quanto ignorato, almeno apparentemente, dai potenti della terra, che continuano ad investire su un tipo di sviluppo economico ‘inquinante’. Attraverso l’attribuzione di lavori “ecologici” tra la popolazione, Majora punta al contrario a migliorare non solo lo stato sociale dei suoi vicini di casa, ma anche il loro impatto sull’ambiente circostante. In una zona storicamente depressa come il Bronx, dove alle fogne a cielo aperto si aggiunge l’alto tasso di povertà, malattie, criminalità, inquinamento acustico e atmosferico, e dove i finanziamenti ‘piovuti dall’alto’ non hanno finora migliorato lo status quo, la proposta della Carter mina la base stessa del problema. Ovvero al punto di vista ‘assistenzialista’ che penalizza il Bronx come tutti i quartieri emarginati del mondo e che, proiettato nello schema di un’economia globale, costituisce la discriminante tra Nord e Sud del mondo.
Inutile illudersi di migliorare le condizioni di vita di un paese affamato se non si aumentano le possibilità di sviluppo autonomo della sua economia e le capacità produttive dei singoli cittadini. Per questo, dieci anni fa, alla proposta di Giuliani di costruire un parco, Majora disse sì, a patto che, a farlo, fossero i newyorkesi del Bronx. I disoccupati, gli ex-galeotti, i tossicodipendenti, gli analfabeti, la ‘zavorra’ umana della società trasformata in forza lavoro con un costo sul mercato e ritrovata dignità d’individuo.
Un’ottica vincente che, non solo restituisce conoscenza ed autostima alle persone, ma riduce delinquenza, problemi di salute, obesità, stimolando un approccio al sistema economico consapevole ed eco-solidale. Se solo gli alti papaveri della politica mondiale si rendessero conto che l’economia verde conviene a tutti, a trarne vantaggio non sarebbero solo i pinguini e i ghiacciai minacciati dal global worming, ma tutta la popolazione mondiale di ogni censo e cultura.
La teoria, battezzata dalla sua creatrice “Enviromental Social Justice”, trova oggi risonanza istituzionale nel “Malora Carter Group”, un organo di consulenza per progetti d’economia ecologica e sviluppo. Infaticabile, tra le pareti del suo ufficio nel South Bronx, tra l’inferno dei clacson e il paradiso del junk food, Majora Carter incrocia le dita per un America che emerge a fatica dal mare di carbone e petrolio e che si aggrappa alla speranza di una rete d’energia alternativa.