Figlia di un ambasciatore brussellese, Amélie (13 agosto 1967) trascorre l’infanzia in Giappone. Mentre i fratelli frequentano la scuola americana, lei, perfettamente bilingue, è iscritta a quella locale. La cultura del Sol Levante s’intreccia alla sua psicologia e quando, per ragioni diplomatiche, segue la famiglia in Cina, conosce anni difficili che riflettono la situazione del regime comunista. Un’altra ambasciata, un altro trasloco, e la futura scrittrice si trova catapultata fra i grattacieli di NewYork dove, tra liceo francese e danza classica, finisce l’adolescenza per poi volare in Bangladesh.
Nel paese più povero del mondo comincia un periodo duro, in cui si ammala d’anoressia, studia per corrispondenza, divora libri e sviluppa un rapporto morboso con la sorella maggiore Juliette. Finalmente a 17 anni approda in Europa, ma la capitale belga è una patria straniera ed Amèlie fatica ad integrarsi anche a causa di un cognome comunemente associato a idee d’estrema destra. È quel che accade alla Libera Università di Bruxelles dove, tuttavia, si laurea in Filologia classica conquistando la libertà di tornare in Giappone.
Ma la breve esperienza di traduttrice in un’importante azienda nipponica si rivela dura e autoritaria ed Amélie si sfoga sulle pagine di “Stupore e Tremore” (Voland, 1999). L’opera autobiografica spopola in Francia e riceve il Grand Prix du Roman dell’Académie francaise ma, ripudiata dalla patria adottiva, rende l’autrice definitivamente apolide. Così, nel 92, torna in Belgio dove pubblica “Igiene dell’assassino” che le regala fama letteraria. Oggi, tra Parigi e Bruxelles, dedica 4 ore quotidiane alla scrittura e pubblica 1 libro all’anno.
L’ultimo lavoro ci riporta sotto il Sol Levante e ci racconta della storia d’amore da lei vissuta 15 anni prima con un ragazzo di Tokio. “Né di Eva né di Adamo” (Voland, 2008), che ha già venduto in Francia 400mila copie e conquistato il consenso della critica, testimonia il riflesso che le differenze tra cultura nipponica ed occidentale hanno sui rispettivi codici sentimentali. Ma la totale apertura alla cultura dell’altro fa sì che i personaggi si scambino i ruoli. Lei cerca il koi, modello d’amore più leggero e spensierato tipico della cultura giapponese, lui vuol conoscere le profondità romantiche del sentimento occidentale. Ed ecco scambiate le parti: Amélie, più fredda e distaccata, lo spinge a conoscere la cultura francese. Rinri, innamoratissimo, la guida per la città, alla scoperta di gusti, suoni, odori sapori e passioni visionarie. Attraverso un’esperienza formativa, vissuta nel rispetto e nell’esaltazione delle differenze, si arriva all’epilogo: la proposta di matrimonio che la fa fuggire in Europa.
Il linguaggio ironico e leggero non solo fornisce spunti sul tipo di società da cui l’autrice per la seconda volta si trova a scappare. Ma su meccanismi generali come il malinteso alla base d’ogni storia d’amore, giocata su un terreno che si crede conosciuto, ma che poi si rivela essere terra straniera.
Come quel Giappone che Amélie chiamava casa e che ora preferisce amare da lontano e rivisitare ogni tanto per soddisfare una delle due metà in eterno conflitto. Ma le battaglie scatenate nelle pieghe del suo cuore sono le stesse che, vissute con indulgente tenerezza, riempiono le pagine di libri che trasudano d’ottimismo e accettazione. È dal conflitto che nasce il valore, il rispetto. Come tra due samurai l’amore è intenso ma non dichiarato. Una battaglia giocata nel rispetto e nel silenzio senza il quale non può esserci musica. Ed è proprio a questa che la scrittrice s’ispira per le sue partiture in equilibrio tra detto e non detto, tra ciò che può trovare espressione verbale e ciò che al contrario è dominato dal silenzio.