Più di 50 libri, tutti i premi del mondo ed un Nobel per la letteratura nel 2007 la definiscono scettica, appassionata e visionaria cantrice dell’esperienza femminile e di una società divisa. Oggi Doris Lessing (Kermanshah, 22 ottobre 1919) depone le armi e consegna il proprio testamento letterario. Gli ultimi guizzi di una penna indipendente che mettono la parola fine alla sua prolifica attività, finché c’è vita ed energia residua. Perché non sia travisato, da interpretazioni buoniste, lo spirito disincantato dei suoi lunghi capelli bianchi, il suo coraggio, la forza motrice di un lavoro nutrito da un’infanzia infelice e dalla guerra più grande del mondo.
Così, tra le righe di “Alfred & Emily” (Feltrinelli 2008), un’opera-summa non più comunista, né sufista ma più psicologica, si leggono i ricordi dell’autrice. La disistima per la madre, infermiera durante la Grande Guerra, donna dai modi stucchevoli ed il cuore di ghiaccio. Il legame con un padre mutilato, di cui assimila la rabbia per non essere più utile ai compagni che muoiono in trincea. Da qui il senso d’infausto presagio, d’ineluttabile fallimento che permea le storie di Doris, dagli inizi fino ad oggi.
L’essere sopravvissuta ad epoche “immortali”, l’aver assistito alla caduta di tutte le ideologie, del suo comunismo, che un tempo chiamava “il sogno più dolce” e che oggi definisce un manipolo di “assassini dalla coscienza pulita”. A questo si deve l’obbiettività ostentata, intrisa di cinismo, disillusione ma anche, a tratti, di dolcissima nostalgia. Come nelle pagine in cui racconta della Rhodesia dove, dalla Persia, era emigrata con i genitori in cerca del sogno vittoriano di terra e raccolto, anche questo fallito.
Qui, nell’odierno Zimbabwe, Doris May Tayler cresce in una scuola cattolica che lascia presto, a soli 15 anni. A 19, il suo primo matrimonio da cui ha due figli che, già nel ’45, abbandona per sposare un comunista del Left Book Club, Gottfried Lessing, da cui nasce Peter. Nel ’49, dopo il secondo divorzio, si trasferisce in Inghilterra e, affidato il bambino ad una famiglia di campagna, esordisce come scrittrice con “L’erba canta” (La Tartaruga) e diventa protagonista della Londra intellettuale. Comincia a sfornare libri sulla vita coloniale, su uomini, donne, ideologie, mai con enfasi ma, al contrario, squarciando il velo dell’apparenza per illuminare gli aspetti più ridicoli, i tic e lo zelo d’ogni categoria umana.
Oggi Doris, se la prende con quella parte della critica, la maggiore, che l’ha voluta relegare a massima rappresentate di un femminismo mai rinnegato ma che non ha più ragione d’essere. E lo stesso vale per l’antirazzismo, un tempo scagliato contro la società di bianchi che l’aveva cresciuta ed oggi deluso dall’avvento del potere nero incarnato dalla tirannide di Mugabe. Tutto questo emerge chiaro, tra commozione per il passato e disillusione odierna, in “Alfred & Emily” (autobiografico già dal titolo che cita per nome i genitori) intriso dell’agnosticismo umano e ideologico alla base delle ultime opere di Doris. Un’icona di libertà ed onestà intellettuale, virtù che non l’abbandonano nemmeno quando parla di sé e dei suoi meriti. Di quel Nobel, ricevuto l’anno scorso, che definisce una “barzelletta, un “dannato” premio consegnatole da una lobby svedese.