“L’autodifesa è la più antica legge della natura”. Così scriveva il poeta e drammaturgo inglese John Dryden alla fine del XVII secolo. Da allora poco sembra essere cambiato, anzi: in nome di presunti diritti all’autodifesa in tutto il mondo si consumano tragedie che si abbattono, con il loro carico di armi, violenza e dolore, su persone più o meno indifese.
E’ questo lo spirito con cui la Fondazione 107 di Torino ha inaugurato, lo scorso 1 aprile, la mostra collettiva “In-Difesa”. Trentotto artisti dall’Africa, dall’Asia, dall’Europa, dalla Russia, dagli USA e dal Medio Oriente affrontano secondo traiettorie personalissime il tema spinoso della difesa e del suo opposto, l’aggressione che lascia, appunto, indifesi. La mostra, curata da Federico Piccari e in esposizione fino al 4 luglio, esplora proprio la linea di confine in cui le azioni di attacco e difesa perdono di certezza e definizione, uno spazio dove le responsabilità non sono più così certe e in cui chi attacca e chi si difende assume connotati simili.
Gli artisti in mostra sono stati selezionati in base al loro lavoro seguendo cinque macro-aree: l’In-difesa della vita, dei diritti, dell’identità, del diritto di culto e militare. All’interno di questi percorsi si scatenano situazioni di incontro-scontro quotidiano in cui potere, territorio, relazioni interpersonali, psiche, sesso, autolesionismo, malattia, religione, diventano micce in grado di far esplodere conflitti.
Questo viaggio complesso e faticoso ha inizio in Africa, culla dell’umanità, continente primigenio e oggi sferzato da guerre, calamità naturali, malattie endemiche, vittima di un colonialismo di rapina che ha lasciato cicatrici evidenti nei suoi confini geometrici, asettici e spesso insanguinati: artisti come Diamante Faraldo, Gonçalo Mabunda, Peter Wanjau e Almighty God rappresentano l’Africa alle prese con le eredità del colonialismo, come un cuore sanguinante in procinto di essere gettato nel vuoto, o ancora come un trono costruito con relitti di armi.
Anche l’Europa lancia il suo grido di dolore, impersonato, ad esempio, dalla solitudine e dalla vulnerabilità di una donna incinta, pronta a tutto per difendere la vita che porta in grembo nell’opera di Daniele Galliano, o dagli spazi deserti e anonimi che portano incise nelle zolle di terra le cicatrici degli eccidi di Dubrovnik, nelle fotografie di Ana Opalic.
Dall’Asia giungono altre interpretazioni del ruolo della donna, oggetto del desiderio e madre nelle opere di Almagul Menlibayeva, o velata da un burqa che lei stessa si rifiuta di strapparsi di dosso, nel video di Rahraw Omarzad. Infine, dagli USA un agghiacciante ricordo della stagione dei linciaggi razzisti nelle foto di Andres Serrano, che ritraggono guerrieri del KKK, incappucciati, protetti dall’irriconoscibilità e liberi di compiere azioni efferate.
Una mostra che è un invito ad assumersi delle responsabilità della propria e dell’altrui vita, svelandosi, mostrando i propri tratti, parlando in prima persona, come fanno gli artisti scelti per questa esperienza artistica ed esistenziale davvero profonda.