Lasciarsi senza odiarsi. E’ questa la frase simbolo della separazione “civile”. Quella in cui si prende atto che l’amore è finito e che è meglio separarsi. Eppure difficilmente ci si può allontanare in modo così pacifico. Pochi eventi nella vita di una persona portano con se emozioni violente come una separazione. In chi lascia sono i sensi di colpa a fare male, in chi viene lasciato, invece sono il dolore e la rabbia.
Non ci sono formule magiche per affrontare una separazione in modo indolore. Soprattutto se il rapporto era importante. Il primo consiglio per non farsi troppo male è proprio quello di accettare che si tratta di un momento “no”. E che soffrire sarà inevitabile. In seguito bisogna darsi i giusti tempi.
Dall’amore all’odio
La separazione è un processo in più fasi: si passa dallo sgomento iniziale all’attimo in cui si riesce, alla fine, ad accettare quello che è successo. Fasi scandite da un tempo personalissimo. Per qualcuno per bastano sei mesi, per altri, invece, molto di più. Dall’amore all’odio. E’ ciò che avviene per molte persone. Il partner che prima ispirava tenerezza e passione, quando la storia si chiude diventa l’oggetto di risentimento.
Senza arrivare a gesti forti, la rabbia va comunque espressa. Dire all’altro che ci ha fatto male e come e quanto risentimento proviamo per lui è utile e necessario. Tormentarsi in silenzio oppure fingersi pronti a rapporti amichevoli può solo peggiorare lo stato d’animo. Se la rabbia viene repressa non fa altro che aumentare.
La teoria del rancore
Passata la reazione immediata, la ferita porta un’emozione a crescere: il rancore. Per sua natura si espande nella mente, richiama ricordi, invoca la messa in scena nel teatro privato e pubblico della scena accaduta. E la colorisce di fantasie di punizione e vendetta. Chi si sente vittima usa il rancore per ricordare giorno dopo giorno, in un’incessante amplificazione dell’offesa subita. Laura Tappatà, nel suo “Il dono del rancore”, ne tesse una specie di elogio.
Laura Tappatà ha insegnato Psicologia Generale presso il corso di laurea in Scienze della Formazione Primaria dell’Università Cattolica di Milano. E collabora con la cattedra di Psicologia della Personalità nella stessa Università. Nel suo libro dipinge un quadro in cui sembra che viviamo in una società permeata da buonismo, che esalta la cultura del perdono morale.
Il rancore come accettazione
E pare ci siamo dimenticati che provare rancore sia umano, inevitabile, e sia di più: vivificante, consolida l’identità, permette di trasformare, se ben incanalata, l’energia del dolore in trascendenza creativa. Sintetizza: “C’è molta più nobiltà in un rancore consapevole e lucido che in un perdono regalato per convenzione morale”. Ma attenzione: il rancore “consapevole” è dominato dalla ragione. Provare rancore non significa odiare o cercare la vendetta, ma solo convivere con l’idea che certe ferite sono davvero imperdonabili.