L’equità retributiva tra donne e uomini è ancora molto lontana, affermano numerosi studi e ricerche, ma è possibile che l’essere mamma addirittura amplifichi questo iniquo fenomeno? Non è del tutto azzardato asserirlo, ma occorre sottolineare che i dati possono essere interpretati diversamente: è il risultato delle ricerche del CMI – Chartered Management Institute, istituzione britannica accreditata che si occupa di management e direzione aziendale.
Il punto è che il gender gap quando si parla di stipendio esiste, è evidente, è comprovato. Ma aumenta incredibilmente con le donne che hanno tra i 35 e i 40 anni, allargandosi ulteriormente dai 40 anni in poi. In particolare da questa età in avanti le promozioni diventano praticamente inesistenti, e i salari si cristallizzano per anni. Interpretando questi dati forniti dal CMI Radhika Sanghani del Telegraph individua in questa finestra di età la maggior parte delle mamme, soggetti che perdono forza contrattuale in virtù del loro genere e della loro condizione familiare. Il CMI sottolinea infatti come alle donne che occupano posizioni rilevanti in un’azienda dopo i 40 anni non vengano più proposte posizioni impegnative (che per esempio includano viaggi e spostamenti).
Tuttavia la ‘penalizzazione materna’ non è l’unico elemento su cui basare l’analisi, afferma Ann Franke, amministratrice delegata dell’istituto, e sullo stesso quotidiano inglese riporta come i dati citati siano sicuramente corretti, ma da non riferire solo alle mamme. Ovvero: dai 35 anni in su il gender gap salariale si amplifica per tutte le donne, madri e non. Alcuni numeri: quando si comincia a lavorare, donne e uomini partono di media con la stessa retribuzione; tra i 26 e 35 anni si verifica il primo divario evidente, che si aggira intorno al 6%; lo scarto, balza al 20% dai 36 anni in poi; e, udite udite, dai 40 anni in su le donne (parliamo sempre di ruoli manageriali) guadagnano in media il 35% in meno degli uomini; il picco si raggiunge dai 60 anni in poi, con un gender gap del 38% – fonte. Un divario del 10% più alto rispetto al gap medio. Mentre snocciola questi dati raggelanti, Ann Franke fa notare un’altra cosa: leggendo le cifre in un altro modo, emerge che una donna professionista lavora di media 57 giorni l’anno gratis.
Quello che l’amministratrice fa notare rispetto alla relazione tra maternità e iniquità retributiva è che l’essere mamme non è di per sé penalizzante, ma si dà per scontato che tutte le donne, tra i 30 e i 40 anni, sono potenzialmente in età ‘da figli’ – almeno nella cultura occidentale – e che quindi non si possa affidare loro ruoli chiave che richiedono impegno a lungo termine. Non si dà la possibilità alla donna stessa a scegliere come effettivamente gestire la propria carriera e l’eventuale maternità, viene dato direttamente per scontato che sacrificherà il lavoro ad un certo punto della sua vita, e quindi non vale nemmeno la pena affidarglielo.