Le donne soldato ormai esistono da diversi anni, anzi se vogliamo andare a ritroso nel tempo da Giovanna d’Arco a Wang Cong’er, fino alle partigiane antifasciste, la storia è costellata di combattenti valorose, nei limiti delle possibilità femminili nella società. Eppure le soldatesse curde che combattono contro lo Stato Islamico nel Kurdistan iracheno, turco e siriano, arruolandosi volontariamente nella guerra contro il terrore dell’Isis, sorprendono di più.
Sorprendono perché siamo abituati da un immaginario un po’ stereotipato a considerare le donne di quelle latitudini come sottomesse e velate, e una politica che le equipari agli uomini ci sembra un retaggio esclusivamente occidentale. Invece le donne curde sono considerate uguali agli uomini sia nella sfera privata che politica, lavorativa, sociale, da quando il PKK, il movimento curdo di liberazione, è emerso negli anni Settanta, rifacendosi ad una ideologia marxista che non lasciava spazio a differenze di genere. Più volte il loro leader, Ocalan, ha espresso chiaramente l’importanza della parità dei sessi e della lotta delle donne, per loro stesse e per i diritti del loro popolo; tuttavia la questione è controversa, perché per gli USA e la UE trattasi di organizzazione terroristica, quindi in via ufficiale le soldatesse ne devono prendere le distanze.
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Insomma, a scapito di quello che si pensa in occidente delle donne del Medioriente, vi è un forte fronte di egualitarismo o di propensione verso esso, e la guerra, per quelle donne, significa un’ulteriore affermazione di indipendenza. Forti, capaci, precise e coraggiose, le soldatesse curde non solo lottano per la libertà dal fanatismo dell’Isis, ma anche per la loro emancipazione, dimostrando al mondo intero una forza d’animo senza eguali. Le combattenti curde siriane fanno capo all’YPJ (Unità di Protezione delle donne, declinazione femminile dell’YPG, Unità di Protezione del popolo) e sono circa il 35% dei combattenti delle varie brigate. Kalashnikov e mimetica, lottano per la propria Nazione (che di per sé per sé è un caso controverso di politica internazionale) e per contrastare tutte le limitazioni imposte alle donne dallo Stato Islamico. E proprio in virtù della limitatezza del fanatismo maschilista dello Stato Islamico, si stanno riorganizzando una serie di strategie di combattimento nell’area. Pare infatti che i combattenti dell’Isis siano terrorizzati dall’idea di venire uccisi da una donna, perché tale morte non garantirebbe loro l’accesso al paradiso corredato delle leggendarie 42 vergini, ritirandosi come se avessero visto un fantasma di fronte alle soldatesse.
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Il documentario ‘Un Giorno in Siria’ parla proprio di loro, delle arruolate di una brigata siriana che raccontano la loro scelta in quanto curde e in quanto donne, descrivendo il bisogno di affermare la loro indipendenza. Anche sul fronte iracheno ci sono moltissime soldatesse curde peshmerga, e alcune di loro hanno raggiunto alti gradi, come il colonello Nahida Ahmed Rashid. E poi ci sono le comandanti come Meysa Ebdo, come Zozan Cudi, Ceylan Ozalp, Viyan Peyman, Arin Mahmud Mohammad e tante, tante altre, tra cui Gill Rosenberg, la prima donna straniera ad essere scesa nelle trincee dei peshmerga. Molto giovani, alcune appena 19enni, hanno scelto di imbracciare le armi per la libertà del proprio popolo e delle donne. E se la prima sembra ancora lontana, viste le implicazioni geo-politiche che vanno ben oltre la difesa dall’Isis, la seconda è già nelle loro mani. I loro nomi, i loro volti, i loro racconti sono visibili nel blog bijikurdistan.tumblr.com: tuttavia si tratta di un vero bollettino di guerra, con immagini che molto crude che possono urtare fortemente la sensibilità.