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Aborto, solo un problema di coscienza?

L’eterno dibattito sull’interruzione di gravidanza: legale ma quasi impossibile in Italia

PAgina di un libro in cui è evidenziata la parola  aborto
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Partiamo dai numeri: nel 2008 nel mondo 50mila donne sono morte a seguito di un aborto non sicuro, e 8,5 milioni hanno riportato gravi danni alla salute. In Italia, ancora oggi, si diffondono pratiche che mettono a rischio la salute femminile.

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Un quadro impensabile rispetto al 1978, anno in cui è stata approvata la legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza (l’Ivg). Siamo nel 2014 e ci troviamo di fronte a un fenomeno sociale (e politico) per cui un grande numero di donne decise a ricorrere all’aborto deve “affidarsi” a pochi centri disponibili ad assisterle o addirittura partire per l’estero. A Napoli si è tenuto il convegno organizzato da Laiga (Libera associazione italiana dei ginecologi per l’applicazione della legge 194, nata dall’impegno di un gruppo di ginecologi non obiettori), in occasione del quale è stata avviata la creazione di una rete nazionale che punti ad affrontare e trovare soluzioni su temi quali la contraccezione di emergenza, la diagnosi prenatale e l’accesso all’aborto terapeutico, l’Ivg farmacologica in Italia, facendo proposte e ipotizzando soluzioni giuridiche sull’obiezione di coscienza.

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Abortire legalmente in Italia è sempre più difficile, se non impossibile. Attualmente negli ospedali Italiani si registrano, stando ad ultime statistiche, addirittura il 90% dei medici obiettori. Proprio per questo motivo nasce, insieme ai medici non obiettori rimasti, una rete di avvocati, disposti ad aiutare le persone in questo percorso che appare sempre più ad ostacoli, certificato da una ricerca effettuata dalla Laiga.

Nei primi 90 giorni di possibile interruzione, solo il 64% degli ospedali è disponibile all’interruzione di gravidanza. Situazione decisamente più complicata quando si supera tale termine e si è decisi ad abortire, magari per malformazioni del feto. È in questo caso che molte donne si trovano costrette a partire per trovare strutture in grado di aiutarle. Tra le regioni più problematiche il Lazio, dove attualmente, il presidente della Regione Zingaretti ha emanato disposizioni più ristrittive sulla libertà morale dei medici, messa troppo spesso in primo primo rispetto al dovere di assistenza.

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Si stima che prima che la legge 194 fosse approvata, ci fossero tra le 350mila e le 450mila interruzioni di gravidanza all’anno, che in alcuni casi venivano registrate come aborti spontanei. A trattare la questione che da anni divide partiti politici, cristiani e non, protestanti e non, medici e non, il libro A. La verità vi prego sull’aborto della filosofa e giornalista Chiara Lalli, (Fandango, 2013).

Un viaggio attraverso gli stereotipi costruiti attorno alla decisione di interrompere una gravidanza, un’indagine sulle false credenze, sulle ricerche (non)scientifiche e sullo stigma sociale che ancora perseguita le donne che decidono di abortire. La Lalli parte dalla constatazione che non esistono prove scientifiche della sindrome post-aborto (Spa). Questo significa che una donna che abortisce non è condannata a stare male. Sono trascorsi 36 anni dall’entrata in vigore della legge 194 che dà il diritto alle donne di abortire, ma di aborto si fa ancora fatica a parlare. Per Chiara Lalli si tratta soprattutto di una questione culturale. Quando parliamo di aborto siamo in genere in presenza di narrazioni amputate, come nei film: quando uno dei personaggi sta per abortire cambia sempre idea. E anche la narrazione privata è difficile. Nel libro ci sono testimonianze di donne che hanno preferito non raccontare la propria esperienza per evitare di vedere la compassione negli occhi degli altri.

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Chi decide di non essere obiettore si trova spesso a praticare aborti a causa della carenza di personale disponibile. Sul piano professionale questo rischia di esser frustrante e faticoso. E quindi si preferisce non farlo. Una sorta di condanna morale collettiva che, insieme all’obiezione di coscienza, è uno degli aspetti che mette a rischio la giusta applicazione della legge 194. In questo modo si preferisce il silenzio al racconto con la conseguenza di mantenere il problema irrisolto.