Essere a capo della società, decidere quali lavori svolgere partecipando attivamente, scegliere chi amare (senza sposarsi). Questi alcuni dei “privilegi” delle donne Mosuo, una popolazione di 25 mila abitanti del villaggio di Loshui, nella provincia cinese di Yunnan, all’estremo sud-ovest della nazione. Una zona ai confini con Vietnam, Laos e Birmania. Nell’area si trova la più importante concentrazione di minoranze etniche di tutto il mondo. I Mosuo viene chiamato il “popolo delle donne” perché qui è il gentil sesso a comandare. E la cosa non pesa affatto agli uomini.
Ne fa un interessante ritratto Ricardo Coler, medico e scrittore argentino, nel libro “Il regno delle donne. L’ultimo matriarcato“ (edito da Nottetempo) che racconta di un viaggio in un luogo sperduto e quasi inaccessibile a 2500 metri, nella Cina meridionale, in mezzo alle montagne himalayane, la vita di donne straordinarie che non hanno dovuto lottare per raggiungere la felicità.
In un mondo in cui a dominare la società è il patriarca, in cui troppo spesso le donne sono vittime di violenze o costrette a non poter godere dei propri diritti, la vita dei Mosui potrebbe sembrare pura fantascienza, ispirazione per un film che incita alla speranza per quante trattengano un inascoltabile grido alla libertà. L’autore scopre che il matriarcato si basa su differenze fondanti rispetto al patriarcato. A decidere sono le donne, anche in amore. E questo non vuol dire che nonne, madri e giovani ragazze rimangano “inattive” a controllare che la vita del villaggio si svolga correttamente. Le donne partecipano al lavoro nei campi, cucinano, accudiscono i figli e decidono per quanto tempo rimanere legate a un uomo.
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Queste forti figure femminili rimangono a vivere nella casa materna, senza compagni. Nella notte scelgono il loro partner che il mattino seguente torna nella sua abitazione. I rapporti sessuali sono vissuti liberamente e a letto, c’è parità e appagamento sessuale. Ciò non vuol dire che i legami duratutri non esistano: una donna può amare un uomo anche tutta la vita, oppure scegliere di frequentare partner diversi per brevi periodi. Tutto questo non rende infelice o insoddisfatto l’uomo, anzi; hanno molto tempo libero che passano a giocare a mahjong (a carte). Il capovolgimento dei ruoli non sarebbe sufficiente se non si innestasse in un tessuto familiare che prevede che tutti i membri abitino la casa e non la lascino per creare nuovi nuclei, perché il matrimonio non esiste. L’amore per i Mosuo corrisponde alle vere qualità del sentimento. Anche alla sua transitorietà, ciò che rimane per sempre è infatti il nucleo in cui si nasce.
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Una “struttura” che spaventerebbe la maggior parte delle donne occidentali, ma che in realtà elimina il rischio di incesto, formalmente proibito, visto che il padre spesso non è noto, anche se le unioni avvengono tra persone di pari età. L’assenza di una figura paterna non impedisce comunque agli uomini di essere presenti con i bambini con i quali giocano e passano tempo di qualità.
Dalle fattezze tibetane, le donne Mosuo non rispecchiano la poca femminilità: esercitano la civetteria, si fanno desiderare. C’è un accorgimento. Dividono il giorno dalla notte. Di giorno sono le matriarche che comandano. Di notte sono libere, di desiderare e farsi desiderare. Un’utopia? Forse. Almeno, una piccola realtà in cui regna felicità.