Quinoa, seitan, bulgur e foglie di cavolo verde. Sono i cibi dalle pronunce scivolose che troneggiano nei menu biologici come ultima frontiera della cucina di tendenza. Ma l’aspetto linguistico non è l’insidia maggiore che si nasconde dietro il successo degli alimenti esotici. Mentre una fascia di consumatori accoglie con entusiasmo la rinnovata offerta gastronomica, c’è chi stimola la comunità internazionale a misurare l’impatto prodotto nella dieta dei consumatori tradizionali. Si tratta del fenomeno denominato food gentrification e pone non pochi interrogativi sulla sicurezza alimentare all’interno dei paesi d’origine dei super-cibi.
In America è per esempio l’anno delle foglie di cavolo; la verdura tipica della working class dell’America meridionale, è oggetto di una campagna di rebranding da parte del colosso alimentare Whole Food. “Le foglie di cavolo sono il nuovo cavolo” recita lo slogan che accompagna il lancio dell’accattivante prodotto gastronomico.
In Bolivia e Perù, dove la quinoa rappresenta un alimento di base della piramide nutritiva, l’inflazione che ha interessato lo pseudo-cereale sembrerebbe averlo reso inaccessibile agli storici fruitori delle Ande colpendo maggiormente le classi più basse della società. Mikki Kendall, attivista americana e prima promotrice dell’hashtag #food gentrification, qualifica il fenomeno come un vero e proprio atto di espropriazione nei confronti di alimenti fondamentali di alcune diete popolari.
È d’accordo con questa visione Joanna Blythman, che dalle colonne di The Guardian, si esprime in maniera molto critica nei confronti dei quinoa-entusiasti. Mimi Bekhechi di Peta, puntualizza, a difesa dei vegetariani, che nonostante la gentrificazione del cibo rappresenti un problema reale il danno prodotto dal consumo di carne è comunque maggiore rispetto all’impatto prodotto dalla quinoa.
A una lettura più attenta, che provi a valicare le polarizzazioni di uno scontro basato sulla tesi che il successo di alcuni cibi “nuovi” generi effetti negativi immediati sull’equilibrio economico e sociale dei fruitori originari, appare chiaro come valutare gli esiti della food gentrification rappresenti un compito molto più complesso.
Emma Banks, attivista dell’Andean Information Network illustra una complessa serie di conseguenze che ruotano intorno, o derivano, dalla food gentrification della quinoa. Per esempio, la presenza nella catena alimentare boliviana di altri cereali e pseudo-cereali come il kañawa e l’amaranto, renderebbe la riduzione o l’assenza della percentuale di quinoa consumata nella dieta andina, meno problematica dal punto di vista nutrizionale. Se è poi vero che l’oscillazione del mercato interno dipende dagli umori di quello globale, non è possibile spiegarsi come l’aumento del prezzo di un prodotto tipicamente esterno come la pasta, non sia riconducibile a un incremento della domanda in Occidente ma piuttosto a una variazione locale della richiesta. Oppure che l’alto indice nutrizionale della quinoa rispetto per esempio al riso, induca a pensare che siano necessari minori quantità e una spesa inferiore per le famiglie nel permettere lo stesso apporto di energia.
E’ infine importante sottolineare il ruolo delle agenzie internazionali impegnate sui temi della sicurezza alimentare nei territori presi in esame. La FAO ha per esempio riconosciuto il ruolo fondamentale della quinoa nel 2013, consacrandola protagonista di “The International Year of the Quinoa” e impegnandosi attivamente nella tutela dei contadini andini.
La questione è quindi ricca di sfumature ma la mancanza di dati precisi che misurino il tema con chiarezza, frena molte delle risposte possibili. La vivacità della polemica stimola però il dibattito sulla necessità di ridefinire il profilo dei consumatori su basi più trasparenti e meno emotive; per essere maggiormente consapevoli dell’enorme potere di influenza sul delicato tema della sicurezza e della sovranità alimentare.