La scarpa di un bambino, la copia di un corano con le pagine sciupate, un biberon, fotografie.
Tante fotografie, firmate dalla giovane Agnese Moreni andata a Lampedusa per curiosità, per dare una mano, per dare vita a questo reportage dei ricordi.
Nelle foto, oggetti rinvenuti nei barconi che si infrangono sulle coste siciliane. Ma non sono solo oggetti perduti, sono parte della vita quotidiana di centinaia, migliaia di persone che hanno attraversato il mediterraneo su barconi di fortuna verso il miraggio di una vita migliore.
Oggetti e ricordi raccolti e conservati dai volontari dell’associazione culturale Askavusa di Lampedusa, che hanno fondato un Museo delle migrazioni e che riportano alla luce la dimensione umana del fenomeno: troppo spesso, infatti, si tende a dimenticare che i migranti sono prima di tutto persone, che decidono di affrontare un viaggio in condizioni proibitive con i loro sogni, le loro speranze e le loro aspettative e si riduce tutto ad una serie di numeri.
Il Ministero dell’Interno e l’ISTAT ci forniscono dei dati precisi per stimare l’entità dei flussi migratori: sappiamo quante persone arrivano ogni anno e da che nazione provengono, dove sbarcano e quando sbarcano, tutto con matematica precisione. Anche di fronte a tragedie come quella dello scorso 3 ottobre sono i numeri a farla da padrone. Siamo stati aggiornati tempestivamente sul numero delle vittime, sul suo continuo accrescersi, fino ad arrivare a più di 360 morti, nonché sul numero delle persone che sono state salvate: più di 150.
È attraverso questi dati che il fenomeno della migrazione dei popoli dall’Africa all’Italia viene analizzato e considerato in tutta la sua grandezza e problematicità: statistiche ed elenchi.
In questo modo si perde inevitabilmente di vista il fatto che dietro ciascuna casella riempita c’è un essere umano con una storia alle spalle, una storia che forse nessuno saprà mai.
È proprio questo l’obiettivo dell’Associazione Askavusa: offrirci una testimonianza da custodire a memoria futura di queste tragiche realtà personali, anche al fine di promuovere l’antirazzismo.
Infatti conservare un oggetto caro ad una persona che ha dovuto abbandonarlo è un po’ come tenere in vita le speranze e i sogni di ignoti le cui orme sono state cancellate.