Una corsetta alla mattina vestito completamente di nero, sotto un sole estivo cocente. Il tutto dopo aver trangugiato un paio di uova in stile Rocky Balboa. Lorenzo Richelmy è “incazzato” come lui stesso ci racconta. Ma sotto sotto è anche un uomo felice. Felice perché ha la possibilità di svolgere al meglio il suo processo di immedesimazione attoriale. Incazzato perché è quello che gli è stato richiesto per interpretare Samuel, il protagonista de “Il terzo tempo”: un ragazzo problematico, fresco di riformatorio. Una volta uscito lo ritroviamo in preda alla voglia di tornare dentro e alla più difficile tentazione di rigar dritto e ricostruirsi una vita. La risposta la troverà sul campo da rugby.
Ventitré anni, una grande voglia di mettersi in gioco e allo stesso tempo divertirsi in questo mestiere. Richelmy, fino ad oggi noto per il ruolo nella serie “I liceali”, arriva al cinema come protagonista assoluto. Il primo ruolo di punta grazie al quale è stato notato da Carlo Verdone che lo ha voluto nel suo nuovo film. Ce lo racconta lo stesso attore nell’intervista in cui rivela anche il suo “metodo” creativo.
Lorenzo, parliamo dell’umore irascibile che ti è stato richiesto sul set de “Il terzo tempo”…
“In realtà è una cosa che ho scelto anche io, insieme al mio regista, Enrico Maria Artale. Abbiamo vissuto insieme per tutto il tempo delle riprese, a Frascati dove abbiamo girato il film. E per me è stato un lavoro ventiquattro ore su ventiquattro. Enrico mi ha detto subito: “non uscire dal personaggio”. Samuele è caratterizzato da solitudine e astio nei confronti degli altri, dunque mi richiedeva di “non parlare con nessuno sul set. Stare per i fatti miei. Totalmente solo”. Io ne ero entusiasta, perché é proprio questo il tipo di lavoro che dà più soddisfazione”.
Questo vale anche per quanto riguarda le corse del mattino e le sudate prima di arrivare sul set?
“Assolutamente. Mi svegliavo presto e un’ora prima delle riprese bevevo due uova e andavo a correre. Una cosa alla Rocky Balboa, tant’è che alla fine ho messo su cinque chili di muscoli. Ero praticamente una branda. La verità è che non sono mai stato un fan della palestra e il lavoro sul personaggio è stato invece l’unico modo che mi ha avvicinato all’attività fisica. Senza dubbio la parte più difficile è stata mettere su i muscoli. Il rugby richiede una struttura fisica molto specifica. La schiena si era allargata, le spalle erano grosse: è stato un lavoro quotidiano sul corpo ed è durato un po’. Oggi ho perso quasi tutto, ma qualche segno del rugby lo porto ancora con me”.
Quanto, invece, ti hanno massacrato sul campo da rugby?
“Mi hanno distrutto! Sia in allenamento che nelle riprese. Una settimana prima di girare mi è uscita la spalla durante un allenamento. Non è stata una cosa bella, considerato che una decina di giorni dopo avrei cominciato a girare le scene sul campo. Avevamo una controfigura per le scene di rubgy, ma non è stata mai usata. Mi hanno picchiato abbastanza”.
Insomma tanta sofferenza, però anche appagamento. A sentirti parlare sembra che tu abbia bisogno di “soffrire” per il ruolo…
“Esatto, io lavoro bene sotto pressione. Girare “Il terzo tempo” è stato un vero rush. Eravamo sempre con la testa in movimento a pensare al film. Io non sono mai uscito dal personaggio. Meno male che al mio fianco c’era Enrico. Insieme ci siamo fatti forza per sostenerci in quel clima di tensione e allo stesso tempo rimanere focalizzati e non rilassarci mai”.
Ti è capitato di fare altre follie di metodo nella tua carriera?
“Mai per un film prima d’ora. L’ho sempre fatto per progetti che mi davano libertà tale da rischiare e azzardare delle cose: qualche cortometraggio ad esempio. “Il terzo tempo” è il mio ruolo più serio, un progetto giovane fatto da giovani con una visione comune. Però devo dire che il personaggio mi è rimasto un po’ dentro. Ho fatto di nuovo un ruolo simile in un cortometraggio: ero di nuovo un ragazzo di borgata, molto romano, molto grosso, incazzoso e violento. Forse per ora è questo il mio cavallo di battaglia”.
Be’ è innegabile che “Il terzo tempo” è il film che lancia la tua carriera cinematografica. Adesso stai girando “Sotto una buona stella” con Verdone. Come è successo?
“E’ stata la prima cosa bella successa dopo “Il terzo tempo”. Eravamo a Venezia, nei giorni della Mostra del Cinema. Avevamo appena finito di presentare il film e Aurelio De Laurentiis in un certo senso mi ha finalmente conosciuto per quello che sono. Durante la lavorazione del film ero sempre nel personaggio, sempre irascibile dunque. A Venezia ero finalmente tranquillo. De Laurentiis mi ha parlato del film di Verdone, poi lo ha chiamato e me lo ha passato al telefono. Abbiamo parlato per circa dieci minuti: gli dicevo che dovevo assolutamente continuare a fare questo lavoro. Io suonavo un po’ come disperato, lui invece era serissimo. Qualche settimana dopo mi hanno chiamato per una serie di provini. E’ andata bene. L’idea di lavorare con Verdone mi rende super contento”.
Nel film interpreti suo figlio. Hai cercato di imitarlo anche nella mimica?
“No, perché lui nel film è un padre che non ha mai vissuto con i suoi figli. Quindi Tea Falco e io siamo totalmente diversi da lui. È un personaggio completamente opposto rispetto a quello de “Il terzo tempo”: uno che suona la chitarra e fa musica. Mi vedrete con i capelli lunghi e la barba. Trasformato. Più mi trasformo, più questo lavoro mi piace”.
Un’ultima domanda, quella che facciamo sempre. Qual era il poster che avevi in camera da ragazzino?
“Una foto di Muhammad Alì. Quella famosa in cui il tira il pugno. La sua foto per intero”.
Il terzo tempo è distribuito da Filmauro.
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