Bella, intelligente e molto affabile: questa è la prima impressione che ci fa Anita Caprioli non appena la incontriamo, nel corso della Mostra del Cinema di Venezia, per intervistarla a proposito del suo ultimo film da protagonista, “La prima neve” di Andrea Segre. Una storia tanto paradossale quanto reale che vede confrontarsi, in una piccola comunità del trentino abbarbicata sulle pendici della Valle dei Mocheni, la gente del posto – isolata dal mondo esterno e ancora legata al vecchio sistema dei Masi – con un gruppo di immigrati in fuga dalla guerra in Libia a cui l’Italia ha offerto asilo politico. Con l’attrice abbiamo parlato della sua esperienza nella Valle, del lavoro sull’accento trentino e della sua completa immersione in una realtà umana così unica.
Complimenti innanzitutto per il lavoro sugli accenti. Io ho dei parenti in trentino e quel dialetto lo conosco bene. In America hanno i coach per questo tipo di cose, nel tuo caso invece?
Il mio coach è stata Agnese, la signora bionda che si vede all’inizio del film e che si occupa del centro di accoglienza. Nella vita non fa l’attrice, ma è stata strappata dal suo lavoro di ristoratrice per prestare la sua espansività al film. Direi che anche il posto è stato determinante per me: dovevo interpretare un personaggio che vive da quelle parti, e il minimo che potessi fare era passare del tempo lì.
Il cast include attori professionisti e non professionisti…
Questa commistione è una prerogativa di Andrea, anche in Io sono Li aveva mischiato attori e persone del luogo, che raccontavano la loro realtà. Matteo (Marchel, che nel film interpreta suo figlio, nrd) ad esempio non è un attore, è un ragazzino di dieci anni che vive in un maso nella Valle dei Mocheni, suona la fisarmonica e condivide un serie di caratteristiche con il suo personaggio, mentre alcune le ha dovute perdere per assumerne altre, quelle scritte.
Quanto conoscevi il trentino?
Nella Valle dei Mocheni non ero mai stata, ed è pazzesca, c’è un impatto con la natura fortissimo. E noi siamo stati lì in un periodo pazzesco, durante il passaggio dall’autunno all’inverno. Siamo arrivati coi larici e gli abeti coloratissimi e poi si è tutto imbiancato.
Lo scenario che si vede nel film, con gli immigrati dalla Libia che si sono stabiliti lì, è ovviamente realtà…
È realtà. Andrea viene dal documentario e anche nei suoi film ama prendere storie reali e immergerle in un racconto filmico, facendone una ricostruzione che mette in risalto la realtà di un territorio molto particolare, una valle chiusa abitata da una comunità che vive nei masi. Accanto a questa realtà ce n’è un’altra estremamente distante, quella vissuta e raccontata da Dani, ma nel film si capisce che una realtà così forte e legata alla natura, come quella della Valle dei Mocheni, si pone inevitabilmente in contrasto con ogni altra.
Quanto tempo avete passato in loco?
Io due mesi, ottobre e novembre.
Come vi hanno accolti gli abitanti?
Si tratta ovviamente di una valle molto chiusa, ma dopo i primi giorni c’è stata un’accoglienza bellissima. Noi alloggiavamo a Sant’Orsola, un paesino di cinquecento abitanti, dove tutti conoscono tutti e ci sono solamente un ristorante e un bar. Ma è come se la dimensione naturale obbligasse un po’ tutti a ritornare a dei valori di base, mentre tutto il resto perde valore. Ho ritrovato molto questo tipo di atteggiamento nelle persone della valle, in città lo trovi meno, perché ormai siamo incanalati in un meccanismo che ci spinge a fare le cose perché bisogna farle, e uno non sa neanche più perché si comporta così. Lì invece c’è una sensibilità diversa, perché sono persone che, come Matteo, crescono giocando nei boschi e imparando a riconoscere il verso di un animale o distinguere le piante, e questo ti tiene ancorato a dei valori di base che sono fondamentali.
Già nelle città la convivenza con gli immigrati è difficile, ma in un posto così isolato come si comportano gli abitanti?
Come si vede nel film, non c’è alcun pregiudizio. Andrea ha raccontato quello che ha visto, ha documentato la realtà del posto così com’era. Pensa ad esempio a Peter (Mitterrutzner, ndr), il signore anziano che si occupa delle arnie: la sua preoccupazione più grande è se Dani sappia fare una catasta e se possa aiutare il nipote, non si pone il problema della sua provenienza, del colore della pelle. Le cose importanti per lui sono altre. Per me il senso del film è proprio questo, mettere a confronto due realtà che hanno priorità molto diverse.
Quali differenze hai percepito lavorando con un regista che viene dal documentario?
La differenza principale sta nel fatto che Andrea non tenta di ricostruire la realtà, ma di simularla, di viverla per ricrearla in modo che sia il più possibile aderente al vero. Un certo tipo di cinema preferisce seguire invece un’altra direzione, quella della ricostruzione.
La nostra domanda da un milione di dollari: quale poster avevi in camera da ragazza?
Mi ricordo che, quando eravamo bambine, mia sorella aveva attaccato un poster di Elvis Presley, col suo ciuffone. Il re del rock!
La prima neve è distribuito nelle sale da Parthenos.