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Fotografi Senza Frontiere

Attraverso la fotografia chi non ha voce può trovare il suo spazio e così mostrarsi e conoscersi, ma anche confrontarsi con gli altri e ampliare i propri orizzonti, imparare a non giudicare ma a comprendere.

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Ci sono delle volte in cui l’immagine parla più di mille parole, racconta vite, quotidianità, rende protagonisti della propria storia, senza alcun bisogno di ricorrere a intermediari. Ci sono delle volte in cui l’immagine rapisce un’emozione, la congela, la mantiene viva per sempre. Ci sono delle volte in cui l’immagine parla della propria differenza, che è anche unicità. Raccontare il mondo, scoprirlo e conoscerlo, guardare se stessi per quello che si è, senza filtri, attraverso l’obiettivo imparziale e diretto, è l’idea che l’associazione Onlus Fotografi Senza Frontiere (FSF) porta avanti dal 1997. Girano il mondo esportando emozioni, regalando passioni a chi, probabilmente, non ne ha mai avuta una a causa del contesto sociale e politico in cui vive.

E così, i ragazzi di strada di Managua, le ragazze di un campo profughi nel deserto algerino, i bambini che vivono adiacenti al muro di Betlemme, i giovani Rom della periferia di Roma, sono diventati protagonisti dell’informazione, proprio loro che in genere, nel migliore dei casi, ne sono soltanto oggetto attraverso il commento mediato e condizionato di osservatori esterni. Stile è andato a conoscere i membri  di FSF, Giorgio Palmera presidente dell’associazione, Emiliano Scatarsi, Davide Fusco e Saùl Palma, il primo ‘frutto’ dei loro laboratori.

“L’associazione Fotografi Senza Frontiere onlus nasce dal laboratorio che ho realizzato a Managua nel ’97 – racconta Giorgio Palmera – in collaborazione con l’Ong italiana di cooperazione allo sviluppo Terra Nuova e la rete di Natras, un’organizzazione nicaraguese che si occupa del recupero e dell’educazione di bambini e adolescenti lavoratori. Il laboratorio ha avuto un grande successo con la partecipazione di bambini e bambine provenienti da tutto il Nicaragua.”

Come ha reagito la gente del posto quando siete arrivati, avete dovuto ‘svestirvi’ dei panni occidentali?

"Ci hanno accolto molto bene. Per i bambini il solo vedere una macchina fotografica, oggetto alla maggior parte dei quali sconosciuto, è stata un’emozione fortissima. Sì, ci siamo svestiti della nostra identità occidentale, ci siamo raccontati, e li abbiamo conquistati."

Come svolgete il lavoro?

"Come in una tavola rotonda, i bambini decidono i temi da svolgere, ci portano in giro per raccontare, con degli scatti, la loro esistenza. Poi c’è anche il lavoro con la comunità che è fondamentale: conoscere le loro abitudini, il loro modo di essere."

Quindi portate il materiale, macchine fotografiche, rullini, create sul posto una camera oscura. Come vi aiutate?

"Gli aiuti economici provengono, di solito, dalle ONG (organizzazioni non governative) che investono sul materiale…"

E che, immagino, rimanga sul posto una volta terminato il laboratorio.

"Esattamente. E’ una condizione di base per noi. E’ importante che rimanga qualcosa ai ragazzi, anche semplicemente degli strumenti con cui giocare. Vogliamo che si innamorino, e nel momento in cui termina il laboratorio, la speranza è che continuino a coltivare la passione per la fotografia."

Una speranza che con Sàul ha superato ogni aspettativa: se non sbaglio hai vinto una borsa di studio concessa dall’Istituto Europeo di design a Milano, giusto?

"Sì – sorride Saùl – ora infatti vivo a Milano. Il corso dura tre anni, poi tornerò in Nicaragua."

La fotografia ha portato cambiamenti nella tua vita?

"Ho sempre lavorato per strada, arrangiandomi in tutti i modi. Poi sono arrivati loro, e mi sono appassionato. Ora sono un fotografo, e a Managua ho anche degli allievi a cui sto insegnando tutto ciò che FSF ha insegnato a me."

Nello stesso anno, FSF ha realizzato un altro laboratorio nel campo profughi di El Ajiun in Algeria. Qui trovano rifugio i Saharawi, un’etnia in conflitto con lo stato Marocchino, costretta ad abbandonare i propri territori ancestrali e a riparare nel deserto.

“L’esperienza Saharawi è stata davvero incredibile – continua Giorgio – la comunicazione è la forma di lotta che hanno scelto in alternativa alla violenza e alla guerra”.

Sono profughi da trent’anni…

"Una condizione tristissima. Non hai patria né documenti di riconoscimento. Non sei nessuno. Con il nostro laboratorio hanno avuto un’ottima occasione per ‘comunicare’."

E’ un paese arabo. Immagino la partecipazione sia stata esclusivamente maschile…

"Era ciò che ci aspettavamo anche noi, ma la caratteristica particolare è stata la presenza di sole donne, o quasi. Le allieve, età compresa tra i 15 e i 17 anni, sono delle vere guerriere, e hanno realizzato una serie di intimi reportage sulla vita dei campi profughi. Le fotografie sono state pubblicate su varie riviste in Italia e all’estero."

Quindi avete proseguito per la Palestina, Betlemme, un contesto con molte problematiche..

"Anche in questo caso la risposta dei ragazzi è stata entusiasta: nonostante lo stato di afflizione in cui vivono, i partecipanti hanno dimostrato un grande interesse. I risultati sono nelle fotografie che hanno scattato, uno spaccato di quotidianità di grande impatto e forza emotiva."

Avete creato anche un centro media?

"Sì, siamo riusciti a portare dei computer, strumento necessario affinché i risultati possano essere condivisi con altri."

Infine state avviando un laboratorio sull’isola di Ostupu nell’arcipelago delle San Blas in territorio panamense e allo stesso tempo capitale della nazione indigena di kunaiala.

"I kuna sono una delle etnie autoctone del centroamerica, una popolazione fiera e gelosa delle proprie tradizioni, tuttavia non insensibile alle necessità e agli stimoli del mondo contemporaneo, visto con curiosità e con il desiderio di non esserne fagocitata. Infatti, pur senza rinunciare ai costumi e alle tradizioni proprie della cultura kuna, si sono integrati nella società panamense."

Quali sono gli obiettivi?

"Attraverso la formazione dei giovani kuna alla tecnica fotografica è possibile avviare un’opera di recupero della memoria storica di questo popolo, creando un archivio fotografico dei tratti salienti della cultura originale Kuna, facendoli raccontare ai protagonisti. Inoltre, stante il desiderio della popolazione indigena di pubblicare un proprio giornale, si offre la possibilità di formare giovani reporter che hanno così la possibilità di cimentarsi in una nuova professione."

Pensate mai che, in fondo, avrebbero bisogno più di un pasto caldo o…
"Certo, ce lo siamo chiesti molte volte, ma l’attenzione dei bambini durante le lezioni, le domande che ci pongono, la voglia che hanno di andare in giro e raccontarsi attraverso questo linguaggio scevro da qualsiasi forma di condizionamento. Ci hanno fatto capire quanto fosse importante per loro, ti guardano fisso negli occhi e avidamente succhiano il nostro sapere. Ci hanno dato una risposta intellettuale, molto semplice, che non dimenticheremo."

D’altronde, basta guardare gli occhi di Saùl per capire quanto il loro intervento sia stato fondamentale per la sua vita, e per tutti i nuovi giovani fotoreporter che stanno formando. Attendiamo una nuova generazione di fotografi… mentre il viaggio continua.

Come aiutarli: I finanziamenti per portare avanti tutti questi progetti sono in gran parte affidati a contribuzioni volontarie, e preciò estremamente aleatori. L’autofinanziamento è quindi la scelta che dà a FSF la possibilità di sviluppare i suoi progetti. Per contributi: Banca Etica – c/c n.507750 – abi: 05018 – cab: 03200 Intestato a Fotografi Senza Frontiere. Per comunicare con Saùl: imagensaul@hotmail.com     info@fotografisenzafrontiere.org

Ilaria Oriente,  responsabile del sito www.moda.it. Ha lavorato per Cinecittà Holding e l’Istituto Internazionale Andrei Tarkovskj. Interessata alla moda, al cinema e al teatro.