Najla Said ha un cognome importante, che nell’establishment intellettuale americano racconta una storia lunga e controversa. Suo padre, Edward Said, è stato docente di letteratura inglese e comparata alla Columbia University, ma soprattutto è stato, fino alla sua morte avvenuta nel 2003, uno dei più implacabili difensori della causa del popolo palestinese, al centro di numerose controversie in tutto il mondo.
Najla ha vissuto l’impegno del padre come uno shock improvviso, che ha squarciato la sua infanzia in Libano nel 1983, quando con la sua famiglia fu costretta a fuggire dal paese dei cedri e a vivere in esilio, con il padre, la madre e i fratelli. Di quell’esperienza è rimasta una traccia persistente nella sua attività di scrittrice e drammaturga: un’esperienza diluita dalla sua adolescenza e giovinezza trascorsa nell’Upper West Side di Manhattan, a contatto con il variegato mondo intellettuale che ruotava attorno alle attività del padre.
In questi giorni Najla va in scena sul palcoscenico spoglio del Fourth Street Theater dell’East Village di New York con “Palestine”, l’amarcord di una “principessa palestinese”. Un lungo monologo in cui Najla mette a nudo la sua esistenza, dalla fuga da Beirut – la patria che si porta nel cuore – alla sua esistenza da adolescente viziata a Manhattan. Le vicende dolorose del “suo” popolo, quello palestinese, rimangono sullo sfondo, quasi una nota a piè di pagina: quando mise piede per la prima volta in Cisgiordania, racconta, non voleva discutere del dramma palestinese, ma solo correre in spiaggia. Najla racconta del senso di smarrimento e confusione provato nei suoi viaggi in Medio Oriente: il cuore batteva al ritmo della vita frenetica delle stradine piene della sua gente, il Libano della sua infanzia – e il paese di sua madre – l’ha accolta con il suo mare, i suoi profumi, i suoi frutti; ma il degrado delle fogne a cielo aperto e il velo indossato dalle donne stonavano con il suo mondo, e l’odio viscerale nei confronti degli ebrei non apparteneva alla sua esperienza. Najla, cresciuta a Manhattan, ha molti amici ebrei e ricorda come il miglior amico di suo padre fosse il grande Daniel Barenboim, direttore dell’orchestra israeliana e implacabile critico delle politiche dello Stato d’Israele, che ha anche generosamente finanziato lo show di Najla.
Il teatro consente a questa principessa palestinese cittadina del mondo di raccontare una storia che ancora oggi rappresenta una delle cicatrici aperte più dolorose per tante persone con lo sguardo distante e sognante di un’adolescente, che attraversa i drammi di un popolo e del suo papà cercandone un senso, e trovandolo nella sua stessa esperienza di vita.