La scrittura di Luis Sepúlveda è caratterizzata da una particolare poetica caratteristica degli autori sudamericani, come Amado, ma anche Arguedas. Le sue storie sono caratterizzate da un forte uso dei sensi. Odori, colori, sapori si intrecciano a formare una vetrata che rimanda molti bagliori. Le sue tematiche sono fortemente ispirate dalla biografia dell’autore ed hanno una marca spiccatamente sociale. L’istinto, la passione, l’umanità ed il gesto spassionato sono gli strumenti attraverso cui viene condotta la sua critica alla società del consumo ed alla distruzione dell’ambiente.
A 8 anni da “Le rose di Atacama” e dopo tre saggi di forte impegno civile, di cui l’ultimo “Raccontare, resistere”, Sepulveda torna alla narrativa con un raccolta di dodici racconti dal titolo: “La lampada di Aladino”. «In realtà – precisa durante un’intervista – non ho mai lasciato la letteratura, non è un ritorno perché non me ne sono mai andato, è che per scrivere ho bisogno di tempo e di calma».
E’ nella dimensione eterea e possibilista della narrativa che lo scrittore cileno trova humus fertile per poter mettere in scena quell’umanità a lui cara fatta di avventurieri, nomadi, indigeni e girovaghi di ogni tipo, tutti accomunati dall’amore per la vita. «Il racconto è il genere che sento più vicino – prosegue Sepulveda – quello a me più congruo, e che mi ha permesso di riflettere, in questo caso, sul paradosso della fortuna: quella fortuna che non sai mai se arriva o no, che arriva tardi o che quando arriva non è per me».
A correre fra queste pagine è appunto la convinzione che certi sentimenti aiutino ad affrontare questo paradosso: sono quelli eterni che stanno alla base dell’amicizia, della comprensione, del rispetto per la dignità degli individui, per la natura e per le diversità. Gli stessi che traspaiono da questi dodici racconti che vedono anche riapparire Antonio José Bolivar Proano, il vecchio che leggeva romanzi d´amore (ispirato all’esperienza di vita dell’autore in Ecuador tra gli indigeni Shuar), in un viaggio di ritorno al villaggio El Idilio abbandonato dopo la guerra per il petrolio tra Perù ed Ecuador.
Oppure l’Hotel Zeta, dove ogni stanza ed ogni suppellettile riporta alla memoria un personaggio. O lo stesso Aladino del titolo, detto il Turco, che durante le sue peregrinazioni in Patagonia, ricorda gli antichi mercanti fenici e l’equa usanza del baratto, prima dell’avvento della malafede. O l´incontro, dopo gli anni della dittatura cilena, tra un ragazzo e una ragazza che rimembrano il corso di galateo per rampolli bene e gli anni della contestazione del’68 a Santiago.
Proprio la memoria è uno dei temi cari all’autore che afferma: «Io coltivo testardamente la memoria, perchè solo assorbendo il passato si può avere una memoria del futuro». La stessa pratica mnemonica che gli ha permesso di non scordare gli orrori/errori del passato per criticare il presente in vista di un futuro migliore. La stessa che gli fa affermare riguardo al movimento studentesco italiano: “Gli studenti hanno sempre ragione, è una massima storica, perché sono lo sviluppo del mondo. Mi chiedete se sono con loro? Certo che lo sono, stanno andando nelle strade per difendere la scuola pubblica. Mi aspetto che le loro proteste abbiano un risultato, sono loro che devono correggere il mondo degli adulti, quegli stessi adulti che hanno eletto per la terza volta Berlusconi in Italia”.
Quella stessa «testarda memoria di cileno» che fa della scrittura di Sepulveda prima di tutto un atto di resistenza.