Come si fa ad essere una donna di successo senza dover scimmiottare l’uomo nelle sue caratteristiche peggiori? Facilissimo – si direbbe – a guardare Stacey Snider (Philadelphia 1963), tra le rare “regine” dell’industria culturale hollywoodiana. Per chi non la conoscesse, la “bionda” dello studio sistem è alla guida della celebre Dreamworks, la major creata nel 1994 da Jeffrey Katzemberg, David Geffen e Stephen Spielberg. Ma il papà di E.T., di cui è braccio destro, è solo uno dei tanti maschi influenti che, cantando le sue glorie, la eleggono nel 1992 la donna più potente di Hollywood.
Laureata all’Università della Pennsylvania dieci anni prima, si specializza nell’85 alla UCLA Law School. A 26 anni è già alla Worner Brothers a conquistarsi le amicizie più influenti del settore, tra cui Guber Peters e Mark Canton. Ma nonostante già da allora si attirava commenti sessisti che attribuivano il successo al suo sguardo e al look impeccabile, la carriera di Stacey era già scritta a lettere d’oro tra quelle delle più illustri personalità maschili.
Il casco biondo, le mise Chanel e gli occhioni trasparenti avrebbero infatti resistito alle accuse che la giudicavano “più interessata allo shopping che ai film”. Stilettate mirate esclusivamente alla superficie, al suo essere fashion victim, come lei stessa ammette, svelando il proprio attaccamento a certe “debolezze” femminili. Basti pensare che è proprio questo il segreto che l’ha portata a ritagliarsi il suo angolo di paradiso: non fingere di essere diversa da se stessa. Non atteggiarsi a “donna in carriera”, ma impegnare energie e cervello per diventarlo. Seguire le proprie idee senza lasciarsi sviare dai giudizi altrui, il più delle volte nati da gelosie e preconcetti. Usare l’intelligenza, e non lo sguardo, per ottenere credibilità e conquistare i propri obiettivi, uno ad uno. In una parola, mantenere intatta la propria femminilità dimostrando che la vera “parità” si ottiene rispettando le differenze di genere e non frustrandole.
È così che – dalla Warner – sale ai vertici della Tristar (di cui diventa presidente nel ’92), della Universal (di cui è CEO dal novembre del ’99), per finire – nel 2006 – sul trono della Dreamworks. Un posto al sole, ottenuto grazie alla miriade di progetti che, dai più modesti ai più ambiziosi, in mano sua si sono trasformati in miniere d’oro. È il caso de “La mummia” (Stephen Sommers 1999), di “Erin Brockovich” (Steven Soderbergh, 2000), di “Fast and Furious” (Rob Cohen 2001), di “Beautiful Mind” (Ron Howard, 2001), fino alla fortunatissima saga di “Shrek” (Andrew Adamson, Vicky Jenson, 2001, Andrew Adamson, Kelly Asbury, 2004, Chris Miller, 2007).
Piuttosto eroico, per una moglie amorevole che dalla sala parto detta i numeri dei test screening e che oggi lavora in bagno, per strappare il telefono alle figlie teen-ager!