Un successo internazionale, raggiunto da appena un ventennio, la consegna oggi all’amore di pubblico e critica, raccolti al Guggenheim di New York che le dedica una personale. Una veterana dello scalpello, Louise Borgeouse (25 dicembre 1911), francese di nascita ma cittadina del mondo. Non solo per aver vissuto le più importanti città d’arte, come Parigi, Londra ed oggi New York, sua città elettiva dal 1938, ma anche perché interprete di sentimenti universali che sorpassano i limiti anagrafici e di genere.
Ha attraversato il Novecento, sottolineandone le tappe capitali ed oggi, a quasi 100 anni, rappresenta il nuovo secolo con la stessa apertura al cambiamento che ha caratterizzato ogni tappa di una lunga carriera. La sua sensibilità artistica ha interpretato l’animo umano secondo un’ottica visionaria, oscillando tra la lucida follia surrealista e le deformazioni della stagione espressionista, sempre in bilico tra l’istanza astratta e quella figurativa. Come nelle sculture brancusiane degli anni ‘40, che anticipavano un modello di donna teso verso il futuro e nelle successive, ispirate ai grattacieli della grande mela la cui purezza è ‘sporcata’ da incrostazioni di pietra.
Sempre lucida e attenta ai fermenti del tempo, non rifiuta la sperimentazione quando, sull’inizio dei ’60, abbraccia nuovi materiali, come gomma, plastica lattex, partecipando alla creazione dell’estetica di una nuova era industriale. Allo stesso modo, contribuisce alla rivoluzione sessuale, partorendo opere irriverenti a tema sexy, venate d’ossessione ed ironia. Basti pensare ai “Soft landscape”, testimoni del suo ottimismo, che accetta il divenire come parte della Natura e della Storia umana.
Oggi il leggendario palazzo newyorkese, creato da Frank Lloyd Wright, segue l’esempio d’altri illustri musei (come la Tate di Londra ed il Mori di Tokyo) che già in passato hanno accolto le opere dell’arzilla 97enne. A cominciare dal celebre “Ragno”, mastodontico e paziente tessitore e metafora della figura materna. Per poi proseguire con i riflessi traumatici di un’infanzia rubata, evocati in “Celle” da elementi domestici trasformati in incubi da trincea.
Così, lungo la spirale architettonica si snoda la vita di Louise, tra i topos della sua attività professionale. Una spirale, appunto, eterno ritorno verso se stessi e verso la dimensione esterna, infinita, in cui l’unica sicurezza è rappresentata dal rapporto con le persone. Un cammino catartico che si chiude con la primordiale “Couple” (1997) simbolo un’immaginazione che supera il tangibile e raggiunge i meandri della coscienza.