Un amico lontano, itinerante, spintosi altrove per raccontare con sguardo obbiettivo il groviglio sociale che attanaglia il suo paese, la Somalia. Nuruddin Farah è nato a Baidoa, nel 1945, dove fin da piccolissimo coltiva la passione per la letteratura, anche grazie ad una madre poetessa che gli affida versi orali per diffonderli al villaggio. Da lì la sua fantasia, già sveglia e sensibile alle parole, lo porta ad intessere le poesie materne con i primi vagiti letterari.
Col tempo sviluppa la passione per le storie senza fine, come quella del suo paese dove tutto sembra non cambiare mai, che gli insegnano ad interpretare i fatti secondo l’evoluzione del punto di vista. Da qui, l’amore per le trilogie e da qui, soprattutto, il suo linguaggio distaccato. Un distillato di coscienza che, redistribuendo il potere della parola, colma il vuoto verbale delle donne in Somalia, sebbene per farlo è dovuto fuggire lontano.
È ciò che accade nel 1976, quando il dittatore Siad Barre lo caccia via dal paese per le critiche ricevute nella prima trilogia firmata da Farah, “Variazioni sul tema di una dittatura africana” (Edizioni Lavoro). Da allora la sua vita è un lungo girovagare. Roma, Stati Uniti (dove insegna in varie università) e poi in lungo e in largo nella sua Africa, fino a tornare in patria per un breve viaggio. E sebbene a casa lo accolgano da eroe, lui sceglie di nuovo l’esilio trasferendosi a Cape Town.
È un destino apolide che condanna chi deve rinunciare troppo a lungo al proprio paese e Nuruddin non fa eccezione. Assuefarsi alla condizione di straniero, sentirsi tale anche in casa propria, lo porta però a sviluppare un senso della patria più obbiettivo e ragionato. Solo così riesce a riappropriarsi della sua terra, servendola con il suo utile contributo letterario.
“Nodi” (Frassinelli), giudicato dal “New York Times” uno dei migliori 100 libri pubblicati nel 2007, è il secondo di una trilogia iniziata nel 2005 con “Legami” (Frassinelli). Lo scrittore affronta il tema della “donnità” che, distinto da quello di femminilità, esprime il senso del “dono” fisico e psichico all’altro. Racconta dell’universo di donne che, guidate dalla speranza, continuano a costituire il collante strutturale di una società dominata dall’autorità maschilista. Le stesse donne che a Kisimayo, nel settembre del 2006, scoprirono i seni per costringere gli uomini alla rivolta contro Siad Barre. Eroine generose, organizzate, ospitali, a tratti disperate ma sempre solide come le radici del paese a cui Farah presta occhi e voce.