Pelle nera, karisma alla JFK, discorsi alla Martin Luther King, ed un nome accattivante, Barack Obama Nato a Honolulu, nelle Hawai, il 4 agosto del 1961, completa gli studi di legge ad Harward 30 anni dopo. Trasferitosi a Chicago, dove sposa Michelle Robinson, è padre di due figlie: Malia e Natasha. Nel 2004, dopo anni di pratica civilista e di docenza in Diritto Costituzionale, diventa Senatore in Illinois ed il 12 febbraio del 2007 si candida alle elezioni presidenziali degli Stati Uniti nel Partito Democratico.
Lei non ha bisogno di presentazioni. Ex first lady Clinton dal ‘93 al 2001, nasce a Chicago, il 26 ottobre del 1947, da una famiglia metodista che la battezza con il nome di Hillary Diane Rodham. Già da ragazza si distingue per le doti da leader sia negli studi che nelle numerose attività sportive. A Yale incontra Bill Clinton, sposato nel 75, e 5 anni dopo diventa madre di Chelsea. Tra i 100 avvocati più influenti d’America e protagonista di numerose cause umanitarie, è oggi Senatrice democratica di New York, in corsa con Obama alla nomination per l’ultima sfida ai repubblicani dell’”elefante” John Mc Cain.
Sembrerebbe il preludio di una svolta epocale auspicata da quando neri e donne d’America, conquistati pari diritti e dignità, lottano per una reale uguaglianza in una società dominata dai maschi bianchi. Peccato che i candidati, dopo mesi di primarie al cardiopalmo, sono ora ai colpi bassi e rischiano di sfaldare la base elettorale del partito democratico.
Barack raccoglie i neri, l’America del blues devastata da “Katrina”, i poveri senza futuro e gli intellettuali illuminati che vedono nel suo volto “nuovo” la speranza di un reale cambiamento. La più cauta Hillary, punta ai voti delle donne e all’ala tradizionalista della democrazia americana e, di fronte ad un Obama favorito nella corsa con McCain, sfodera l’arma micidiale della questione “razziale”.
Ma sul terreno delle analogie, rappresentate dal comune credo politico e dal fatto di essere candidati “mai visti”, il programma elettorale di Obama, considerato più fresco e coraggioso, sembra avere un peso maggiore. Se l’America è pronta ad un cambiamento, questo sarà radicale – sostengono gli analisti – e le prudenze di Hillary, che spera di estendere la sua base, potrebbero essere controproducenti. L’approccio a Cuba riassume i termini dell’intera questione, con Barack che richiede l’eliminazione dell’embargo ed Hillary che temporeggia in attesa di veder definita la situazione post-castrista.
Dopo le vittorie in Texas, Ohio e Rhode Island, che dopo dodici sconfitte consecutive salvano la ex first lady dal ritiro imminente, è di nuovo battaglia all’ultimo voto. E mentre tutti gli occhi sono puntati sulla Pensylvania (22 aprile) i due inaspriscono le stilettate: lei lancia spot dai toni antirazziali, lui manda mail a tappeto smascherando le sue beghe fiscali.
La situazione non accenna a migliorare, almeno fino a che la matematica non darà un concorrente per spacciato rendendo necessario l’auspicato “dream ticket” che li vedrà spartirsi i compiti di capo e vice. Ma cosa accadrà se il discredito accumulato fino ad allora sarà tale da non poter essere recuperato? A riconciliazione forzata, come sarà possibile regalare la propria fetta di voti al “rivale-amico” se questi sarà ormai privo d’ogni credibilità? Tremano i vertici del partito che invitano alla cautela: se guerra deve esserci, che sia leale. Il rischio è uno svuotamento delle urne che porterebbe Mc Cain dritto sul trono della sala ovale.
Resta il fatto che, aldilà del risultato, l’America è davanti ad una rivoluzione di mentalità da cui difficilmente potrà tornare indietro. Superando un tabù (anzi due), finora rotto soltanto dal cinema hollywoodiano, costringe il mondo a trattenere il fiato in attesa che nel paese della “Libertà” bianca e maschia, per la prima volta nella storia, il potere si tinga di “nero” o di “rosa”.