Catherine Dorleac, nata a Parigi il 22 Ottobre 1943, è icona di stile almeno quanto Chanel N5 e Notre-Dame. Il suo volto glaciale, fissato in quasi 100 film, segna le tappe della storia di Francia, da De Gaulle a Mitterrand. Terza di quattro sorelle, prende il nome della madre per via dei dissapori con Francoise, la maggiore, che morirà in un incidente d’auto nel ‘67.
Incontra il cinema a 13 anni sul set di “Les Collégiennes” di André Hunebelle, ma è Roger Vadim a consacrarla sull’altare della scena francese negli anni 60. Con il regista mette al mondo Christian, frutto dell’unione tra carriera e vita privata che rimarranno indissolubilmente legate. Nel ‘65, sposato il fotografo David Bailey, interpreta “Repulsion” di Roman Polanski che la identifica con una femminilità emancipata, portatrice di nuovi costumi. Con “Bella di giorno” (Luis Bunuel, ‘67) “sveste” i panni di una moglie borghese che si prostituisce per noia, confermandosi diva coraggiosa, degna rappresentante d’un cinema d’autore opposto all’industria culturale hollywoodiana.
“La mia droga si chiama Julie”(‘69) la consegna nelle braccia di Francois Truffaut, padre della Nouvelle Vague, con cui avrà una lunga relazione. Hollywood la chiama ma, dopo un paio di ruoli, torna in Europa e gira “La Cagna”di Marco Ferreri. La pellicola le regala un altro ruolo provocatorio e la passione travolgente per Marcello Mastroianni da cui nasce Chiara. L’80 la premia per “L’ultimo metrò”di Truffaut, con l’amico Gérard Depardieu, che le vale il César e il Davide di Donatello. Ancora scandalo con “Miriam si sveglia a mezzanotte” (Tony Scott, ‘83) dove, con Susan Saradon, recita la scena saffica che la elegge beniamina dei gay.
È la vetta, il mondo la adora, riconoscendole un carisma che non sfuma, ma si arricchisce di esperienza e riconoscimenti. Nell’86 succede a Brigitte Bardot, come simbolo della Repubblica francese. Nel ‘92 è nominata all’Oscar, nel ‘98 riceve la Coppa Volpi a Venezia. Segue l’Orso d’Argento a Berlino per “Otto donne e un mistero” di (Francois Ozon, ‘01), che conferma il talento canoro già esibito nel 2000 in “Dancer in the dark” di Lars von Trier.
Tetraedrica come un diamante, Catherine è anche scrittrice. Nel ‘96 pubblica “Si chiamava Francoise”, dedicato alla sorella, e nel 2004, “Al’ombre de moi-meme”. È testimonial di prestigiose campagne pubblicitarie per Louis Vuitton, Yves Saint Lauren e Chanel. Un ossimoro vivente Catherine, regina dei tabloid, come di cause umanitarie. Icona di purezza, ma anche di sesso e trasgressione. L’algida dea rifiuta le categorie. Presiede la giuria a Cannes ‘06 e disegna gioielli, occhiali, scarpe.
Oggi, ancora in auge, arreda il café-salon da tè del cinema Panthéon di Parigi. Sceglie mobili collezionati in viaggio e, insieme al fedele scenografo antiquario, Clignancurt, conferisce all’ambiente un gusto esclusivo. Anche il menù parla di lei: torte di carota, fragole e mascarpone, tiramisù di pesche e salmone biologico. Sugli scaffali, illuminati da luci soffuse, i “Cahiers du Cinéma”, vangeli della settima arte francese. Di quei registi-autori che, come lei, hanno rotto le regole e realizzato, oltre ai copioni, l’espressione sussurrata di incoffessabili segreti.