Not only possible, but also necessary: optimism in the age of global war, è il tema di una Biennale decisamente schierata, che rivendica il ruolo dell’arte nella realtà, e quello di Istanbul – e della Turchia in generale- sulla scena mondiale.
La prima moderna repubblica non occidentale è da secoli ponte tra paesi in via di sviluppo da una parte, ed apertura all’occidente dall’altra.
Come difendere questo ruolo ora che il mondo è attraversato da guerre e minacce globali?
La Biennale turca lancia un messaggio di ottimismo.Oltre gli schieramenti conservatorismo /globalizzazione, compito degli artisti invitati è immaginare e testare una moltitudine di modernità possibili.
Negoziazione e dialogo sono all’essenza di una rassegna realizzata grazie al supporto USA, affidata al curatore cinese Hou Honru, e ad un concerto di artisti locali ed internazionali che si confrontano nei numerosi progetti collettivi.
Punto di partenza è il rapporto con Istanbul, e con l’esplosivo sviluppo urbano che ne ha accompagnato la modernizzazione.
Le relazioni tra forme politiche e vita popolare sono al centro degli interventi artistici che si muovono al confine della urban guerrilla: la scelta delle location scarta gli scorci da cartolina e si concentra su punti nevralgici per riesaminare criticamente la modernità.
Il progetto Burn it or not? Riaccende il dibattito sulla destinazione dell’Ataturk Cultural Centre, edificio simbolo della utopia modernista, minacciato oggi da un progetto commerciale privato.
15 artisti ( tra cui Daniel Faust , il duo Nina Fisher/Maroan El Sani, Erdem Helvacioglu) occupano l’edificio per “difendere” lo spazio pubblico nella città post-utopia.
Una migliore riuscita dell’edilizia pubblica, sembra avere un luogo di mercato e produzione.
Il vivacissimo Istanbul Textile Traders Market, una sorta di bazaar post-moderno, ospita la rassegna World Factory, dedicata ai modelli di creatività e resistenza al ruolo di centri di produzione a basso costo imposto dall’ economia globalizzata ai paesi in via di sviluppo.
I lavori di circa 20 artisti- il gruppo coreano Young-Hae Chang Heavy Industries (www.yhchang.com), ed il Raqs Media Collective da Delhi, tra gli altri- si insediano tra i negozi e le piccole arene, dialogano con il contesto e la popolazione, la invitano spesso all’attivismo sociale.
Antrepo No.3 resta la location più suggestiva , e la più prestigiosa di questa Biennale.
Entrepolis è il progetto di condensare al suo interno Istanbul ed il suo caos, il suo labirinto di luci e rumori, attraverso i lavori di più di 50 artisti: Rem Koolhaas con AMO (think tank creativa dell’Office for Metropolitan Architecture, che ha tra i suoi clienti la fashion house Prada, e l’ Hermitage) presenta qui The Gulf; il regista Atom Egoyan dedica due installazioni, Aurora e Testimony, alla memoria; Huang Yong Ping, ci racconta la trasformazione di Hagia Sofia , per 916 anni cattedrale cristiana, e 481 anni moschea musulmana, avvenuta senza radicali svolte ma con più delicati aggiustamenti. Il duo Allora Calzadilla in There is more than one way to skin a sheep ci conduce tra i suoni di un affollato crocevia di Istanbul.
Dreamhouse infine è lo spazio sempre aperto di una Biennale che non dorme mai, e accoglie i suoi viandanti a contemplare la città, interamente trasformata in un laboratorio dove disegnare il paesaggio umano post-utopia.
10° International Istanbul Biennial
fino al 4 novembre 2007
http://www.iksv.org/bienal10